martedì 4 marzo 2014

Post di Natale - imparare a camminare con qualcuno fino in vetta



Questo post avrei voluto scriverlo a Natale dell’anno scorso…ma non c’è stata occasione. Ed anche come amarcord  a Natale di quest’anno, ma avete presente cosa significhi avere cinque minuti per sé a Natale? Già io sono uno che per scrivere deve essere ignorato dal mondo per un’ora o butto tutto nel cestino, ma quando i parenti non ti vedono da due anni è decisamente scortese astrarsi anche solo per andare in bagno.
I miei problemi con la scrittura sono quelli che hanno decretato lo stop alla scrittura del blog in viaggio. Per me scrivere è un piacere non tanto per le sensazioni che mi da o per la possibile soddisfazione del creare, ma perché per scrivere io taglio i ponti con quello che c’è intorno. E’ una forma di meditazione, né più né meno.
Vi immaginate fare yoga o meditazione con qualcuno che vi interrompe ogni 5 minuti? E’ sufficiente che succeda un paio di volte per abbandonare la pratica in secula seculorum! Per chi fosse scettico sullo yoga e sulla meditazione avrei una pletora di esempi sulle attività e sui momenti di intimità che se interrotti portano ad un’irritazione feroce. Ecco, per me scrivere è un momento intimo, il prodotto non è l’obiettivo ma quasi un…by-product? non so come spiegarlo e devo dire che tutti gli esempi che mi vengono in mente sarebbero poco gradevoli, quindi lascio alla vostra fantasia.

Per tornare al post di Natale: ho avuto in mente cosa scrivere in questo post per un anno e due mesi, sono tutte riflessioni legate al modo in cui ho vissuto quella giornata. Tutto è iniziato con una furente litigata in ostello. Eravamo ad El Chalten,Argentina, un paese fantasma costruito per marcare il confine col Cile nei pressi del Cerro Fitz Roy, montagna “sacra” per gli argentini perché menzionato nell’inno nazionale tra le bellezze naturali di cui il paese deve andar fiero. Perché diciamocelo, mentre gli inni dei paesi del vecchio continente esaltano il popolo e la sua vocazione ad essere tale, ci sono un sacco di paesi il cui inno è un’affermazione di superiorità…avete presente l’inno nazionale kazako cantato in Borat?
A questo si aggiunge anche l’innata paranoia degli argentini per i confini del loro paese: ci sono storie di allerte generali per un’insolita abbondanza di macchine targate Cile sulle strade al di quà della frontiera così come le accuse sullo spostamento nottetempo dei paletti che demarcano il confine in una valle brulla ed indiscutibilmente inutile a livello geopolitico!
El Chalten è stato costruito lì per quello: marcare il confine come uno schizzo canino sul  portone di casa. Ci sono offerte interessanti per chi volesse andarci a vivere, hanno anche costruito una potentissima parabola per far rimbalzare il segnale telefonico dal più vicino centro abitato…100km in linea d’aria tra montagne e pietraie senza un albero…dopotutto è Patagonia.
Un’idea interessante per una fuga dalla routine spesata dal governo porteño, il vicinato non è dei più gradevoli (tagliagole, ex carcerati ed alpinisti), ma di sicuro è un posto tranquillo e la vista…che vista!
Il Cerro Fitz Roy è una cartolina, anzi, un carnet di cartoline! Ogni ora del giorno, ogni condizione climatica lo trasforma. E’ una montagna da scalatori seri, chiodi e corde, una parete liscia da arrampicare per 800m con una sosta notturna obbligatoria appesi alla roccia. Per me cose al di là dell’umano…

Come ho detto tutto è iniziato con una litigata. La nottata non era stata delle più tranquille a causa di due olandesi ubriachi con cui stava per scoppiare una rissa, ci dovevamo svegliare all’alba per camminare quando ancora nessuno era sui sentieri, ma a volte gli animi si scaldano ed il nervosismo della notte prima non doveva essere ancora del tutto sopito. Decido i andare per la mia strada, col mio passo e con le mie idee. Mi piace molto camminare da solo, col mio ritmo, spingo tanto sull’acceleratore ma cercando di calibrare lo sforzo…quando sono arrabbiato spingo e basta. Mi devo sfinire per far sbollire la rabbia, quindi prendo i bastoncini, tolgo la giacca e resto solo in termica. Attacco di corsa la montagna, non si vede nessuno in giro e Viviana resta subito indietro perché quella mattina volevo che fosse così, volevo salire rabbiosamente. Supero la parte di bosco e mi trovo in una pietraia sempre più ripida, senza sentieri, nuvole tutto intorno, inizia ad esserci la neve per terra.
 
 Non mi importa che non ci sia vista, potrei essere a 50 metri sul livello del mare con intorno una periferia anni ’60 appena dopo le nuvole, ma mi importa solo sbollire, sentire il fiato che diventa grosso, le guance rosse per il freddo. E’ il momento in cui inizio a pensare, in cui sento la natura, in cui mi sento piccolo ed impotente e continuare a correre è un esercizio di concentrazione gratificante.
Arrivo alla base della Piedra tumblar (lapide), una specie di proiettile di pietra alto 150 metri che spunta da una frana. Voglio salirci in cima, non era parte del programma della giornata, ma mi piace sfidarmi, mi sembra di trasgredire, come quando si sale su un albero da bambini e ti è stato detto di non farlo perché poi cadi, ti rompi la testa, resti cretino, vai in ospedale, quando torni a casa te le suonano, bla bla bla… in questo caso la trasgressione è fatta al mio approccio al trekking: raramente prendo dei rischi non calcolati e soprattutto non ne lego quattro o cinque a mo’ di  mazzetto di prezzemolo.
Non conoscevo la zona, non avevo studiato il percorso, avevo solo una cartina satellitare sul cellulare, non ero attrezzato per arrampicare né tanto meno ero preparato, non sapevo cosa mi sarei trovato davanti, quale fosse la salita più semplice, ero da solo, nessuno sapeva che ero lì né si vedeva nessuno all’orizzonte, per di più c’era una quantità di ghiaccio da ramponi su quasi tutti gli appigli più larghi di una spanna. Ho fatto una cazzata, lo ammetto, i rischi non erano grandissimi, ma in montagna basta un incidente piccolo.
Arrivato in cima la rabbia era sbollita, mi sentivo commosso, quasi piangevo. Ero congelato, stanco, con le mani piene di lividi perché per non ci si improvvisa arrampicatori…ma ero felice come se avessi scalato il Fitz Roy, come se fossi stato uno di quelli che si vedevano avviarsi nella valle con dieci metri di corda e le tute di piumino arrotolate sugli zaini.
Sulla cima c’era un monticello di sassi lasciati da quelli che erano saliti prima di me, è una consuetudine raccogliere un sasso lungo il percorso e tenerlo in tasca per lasciarlo sulla cima.
Ho registrato un video col cellulare per fare gli auguri di Natale alla mia famiglia raccolta a Siracusa, per spiegare che il mio viaggio non era una fuga, ma la ricerca di emozioni semplici come quelle che si provano arrivando in cima a qualcosa da soli, anche se è solo un sasso che a mala pena arriva alle ginocchia di quelle che sono a buon diritto chiamate montagne.
Ed in quel momento ho preso il mio moleskine ed ho scritto una frase. Sincera, semplice, sentendo la musica che evocava dalla mia memoria mentre mi facevo una foto mostrandola. Una frase per tutti quelli che non erano su quel sasso con me, per quelli da cui stavo scappando, per quelli che non avrebbero capito per molto tempo, per quelli che avevano accettato e per chi nemmeno sapeva dove fossi: volevo tutti lì sopra perché provassero quello che provavo io, perché vedessero il cielo e sentissero sulla pelle il vento limpido, perché provassero quella sensazione di iperventilazione, perché capissero perché volevo così fortemente tutto questo.
Ma soprattutto l’ho fatto perché mi sentivo solo
Mi mancava la mia compagna di viaggio, per quanto sia emozionante vivere da soli certe esperienze quelle emozioni volevo condividerle con lei.
 Quindi sono tornato sui miei passi, accompagnato da un folle professore di filosofia di Buenos Aires che si era perso e con cui ho intrattenuto una maldestra disquisizione in un ancor più maldestro spagnolo sullo sturm und drang ante litteram nell’Inferno di Dante (O.o)
Sono tornato per abbracciarla e mostrarle la foto.



Tutto questo è successo all’inizio di quello che è stato, oltre che un viaggio, un percorso di coppia molto lungo. Viaggiare insieme trascende il concetto di coppia, cosa che per altro non eravamo più da tempo. Si è compagni di viaggio, un team, degli amici con cui condividere le emozioni, su cui contare, il lato sentimentale viaggia su binari differenti.
Eravamo lontani, non sapevamo coesistere al 100%. E’ stata la prima delle salite solitarie, ce ne sono state altre in cui ho affermato il mio essere da solo in quel che facevo fino a quando, molti mesi dopo, alla fine del sentiero dell’Ice Lake sull’Annapurna circuit su cui ero arrivato da solo l’emozione più grande è stata vedere che anche lei ce l’aveva fatta… Sulle sue gambe, arrivata quasi due ore dopo, barcollando per il mal d’altitudine e sfinita. Mi sono accorto che in quell’anno io ero cresciuto poco come escursionista mentre lei aveva acquisito una forza di volontà che travalicava i limiti fisici, qualcosa che io avevo dovuto sfidare molto meno per via di un approccio totalmente diverso alla montagna. E’ stata l’ultima volta che l’ho lasciata indietro, la salita più dura l’abbiamo fatta insieme, come una squadra, aspettandola, tenendola sveglia, incoraggiandoci quando faceva freddo e volevamo solo accucciarci al riparo da vento e neve, quando dopo ogni curva ce n’era sempre un’altra, finché sopra di noi c’era solo cielo e la valle del Mustang sotto di noi.
Ho imparato a camminare insieme a qualcuno, non a correre da solo per dire “ce l’ho fatta in un tempo sotto la media e tutto da solo”. E’ stata la chiusura di un cerchio, di un ragionamento iniziato dieci mesi prima dall’altro lato del mondo.
Scoprire quanto ci sia da crescere ancora apre la porta alla crescita stessa, credo… vedere qualcuno crescere, accorgersene, ci da l’occasione per renderci conto delle cose. Perché in fondo crescere significa imparare a percepire meglio le cose, capirle e cogliere il loro movimento armonico, come leggere il mutare dell’equilibrio tra Yin e Yang, come vedere le immagini nei numeretti verdi sugli schermi di Matrix.
Esagero con i paragoni? Ma sì, in fondo sono sempre esagerato quando scrivo, esagero le emozioni, esagero forse le situazioni…il fatto è che se da fuori sembro una persona poco entusiasta è perché dentro le cose sono ben diverse ;)