mercoledì 26 febbraio 2014

Angoscia e stimoli - dal parlar del più e del meno...

 Ci sono persone con cui un "hey, come stai? sai che sei l'unica persona che ho su Telegram (app alternativa a Wazzapp)" si trasforma in un abbozzo di discussione filosofica su "la vita, l'universo e tutto quanto". E questo accade puntualmente ed in modo raramente banale.

 L'argomento è di quelli seri: come si fa a vivere senza stimoli? io ed il mio fraternamente amato interlocutore siamo persone che vivono di stimoli, di piccole o grando sfide ed è inevitabile trovarsi davanti alla scelta tra inseguire il proprio equilibrio o costruire l'equilibrio insieme alle persone a cui si tiene. Convenivamo sul detestare quel senso di angoscia che ci accompagna costantemente, quello che sfuma sol quando ci si impone di essere liberi e di fregarsene non tanto degli altri, quanto delle proprie paure riguardo al giudizio degli altri ed al mettere alla prova i legami che si ha paura di corrompere.
Personalmente sono sempre stato molto timoroso, odio deludere e detesto quando le persone mi dicono di averle deluse come arma dialettica. E' giocare sporco, è privare della libertà di inseguire la felicità. Un giorno ho deciso che in quel momento il mio star bene era più importante e così ho imparato che chi davvero ci vuole bene capisce che parte di quella delusione è solo egoismo ed è pronta a rivalutare i comportamenti. Con questo non dico che le bastardate vengano perdonate, tocca pagare per ogni decisione presa nella vita e non cercare di sottrarsi è parte dell'essere una persona adulta e non un "ominicchio".

Ma dicevo dell'angoscia
Avendo nominato a proprosito l'analisi filosofica fatta un centocinquantino d'anni fa dal signor Severino Cimitero ( Soren= Severino Kierkegaard=giardino della chiesa=cimitero ...questa cosa sarebbe stata molto da me ma in realtà viene da mio padre, il sangue non è acqua dopotutto) mi è venuto il desiderio di andare a leggere su Wikipedia cosa si diceva dell'angoscia nella filosofia di Kierkegaard ed ho scoperto una breve descrizione che racchiude il 90% di quello che può essere detto dell'angoscia ed in poche chiarissime righe.
A questo punto una domanda sorge spontanea ed innocente: MA PERCHE? CAVOLO I LIBRI DI FILOSOFIA A SCUOLA NON SI CAPIVA MAI SE FOSSERO SERI O SE FOSSE UNA SUPERCAZZOLA?!?!?!?!?!?

Godetevi la lettura

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Il termine angoscia è stato utilizzato per la prima volta in termini filosofici da Søren Kierkegaard (18131855), con il quale il pensatore danese identificò la condizione preliminare dell'essenza umana, che emergeva quando l'uomo si poneva davanti ad una scelta: la libertà sconfinata di scelte che l'uomo può operare, lo getta in preda all'angoscia, conscio delle responsabilità derivanti dal fatto che una scelta positiva significhi potenzialmente milioni di scelte negative. L'angoscia è definitiva quindi come il sentimento della possibilità.
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Attualmente si tende a definire l'angoscia come un senso di frustrazione e malessere, una sofferenza psicologica che può degenerare anche in diverse patologie (si pensi all'angoscia di castrazione infantile o all'angoscia esistenziale di derivazione kierkegaardiana).
Nel possibile tutto è possibile ed essendo l'esistenza umana aperta al futuro, l'angoscia è strettamente connessa all'avvenire che è poi quell'orizzonte temporale in cui l'esistenza si realizza: "Per la libertà, il possibile è l'avvenire, per il tempo l'avvenire è il possibile. Così all'uno come all'altro, nella vita individuale, corrisponde l'angoscia". 
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Nella filosofia contemporanea il tema dell'angoscia è stato ripreso da Martin Heidegger in questi termini: "Con il termine angoscia non intendiamo quell'ansietà assai frequente che in fondo fa parte di quel senso di paura che insorge fin troppo facilmente. L'angoscia è fondamentalmente diversa dalla paura. Noi abbiamo paura sempre di questo o di quell'ente determinato, che in questo o in quel determinato riguardo ci minaccia. La paura di... è sempre anche paura per qualcosa di determinato. Nell'angoscia, noi diciamo, uno è spaesato. Ma dinanzi a che cosa v'è lo spaesamento e cosa vuol dire quell'uno? Non possiamo dire dinanzi a che cosa uno è spaesato, perché lo è nell'insieme. Tutte le cose e noi stessi affondiamo in una sorta di indifferenza. Questo, tuttavia, non nel senso che le cose si dileguino, ma nel senso che nel loro allontanarsi come tale le cose si rivolgono a noi. Questo allontanarsi dell'ente nella sua totalità, che nell'angoscia ci assedia, ci opprime. Non rimane nessun sostegno. Nel dileguarsi dell'ente, rimane soltanto e ci soprassale questo nessuno. L'angoscia rivela il niente. Che l'angoscia sveli il niente, l'uomo stesso lo attesta non appena l'angoscia se n'è andata. Nella luminosità dello sguardo sorretto dal ricordo ancora fresco, dobbiamo dire: ciò di cui e per cui ci angosciavamo non era "propriamente" - niente. In effetti il niente stesso, in quanto tale, era presente".[1]

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